THE MIND’S GAME WITH TIME
di Roberto Zamparo
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IL GIOCO DELLA MENTE CON IL TEMPO

Secondo vari insegnamenti diffusi in Oriente, il tempo è una dimensione creata dalla nostra mente.
Neuroscienziati come Semir Zeki, Erik Kandel ci spiegano che il nostro cervello è strutturato, per esigenze di sopravvivenza cioè essenzialmente per il riconoscimento delle stesse cose in situazioni diverse, a estrarre e stabilizzare le caratteristiche di forma, colore, consistenza e collocazione dei fenomeni che cadono nella rilevazione dei sensi. Sembrerebbe quindi che la mente abbia anche un’esigenza di fermare il tempo. Il linguaggio stesso, con l’assegnazione di parole convenzionali a oggetti e concetti, mostra l’analoga esigenza di riferirsi stabilmente a qualcosa nelle varie circostanze.
E’ mia ipotesi che l’esigenza umana di definire concettualmente l’ Essenza delle cose (intese come oggetti, fenomeni, pensieri), che ha dato adito a costruire Filosofie e Religioni, nasca da questa tendenza fisiologica oltre che, forse, dalla più complessa esigenza psicologica di pensare a qualcosa di durevole, al di là dell’ineluttabile disfacimento insito in ogni oggetto e fenomeno materiale o naturale (impermanenza). Questo può essere letto anche come superamento del pensiero della propria morte.
Seguire questa predisposizione, invece di stabilizzare la Mente, ci immerge però nel vortice dei concetti e dei pensieri, che non sono l’origine e la vera essenza delle cose, ma una loro astrazione di comodo.
Per rimanere nella vera Essenza delle nostre Sensazioni (cioè quello – e solo quello – che arriva ai nostri sensi) è utile fare l’esercizio di non passare alla fase immediatamente e spontaneamente successiva chiamata da Erik Kandel Percezione, che richiama automaticamente le conoscenze che già abbiamo acquisito e contestualizza la Sensazione con un riconoscimento, e poi una classificazione e un giudizio.
Le Arti Visive possono essere di aiuto nel fornire immagini che hanno un contenuto o uno stile tale da favorire la fase di Sensazione ma non quella, molto più soggettiva, di Percezione. Ad esempio, ciò si può realizzare tramite l’arte astratta (… nonostante il termine) in contrapposizione a quella figurativa oppure anche tramite vie o stili intermedi in cui le caratteristiche sensoriali che influenzano la fase di percezione vengono semplificate dall’artista.
Si ritiene comunemente che la singola fotografia (così come la pittura) fermi il Tempo al momento della ripresa (“istantanea”). L’intero processo che include concezione, produzione e fruizione è in realtà ben più complesso e il Tempo può rientrare in gioco sotto più aspetti.
Un’altra caratteristica di quelle Arti Visive che hanno come output un piano bidimensionale (Fotografia, Pittura, Video) è la perdita fisica della tridimensionalità. Anche la tridimensionalità, cioè la rappresentazione nello Spazio è, in un certo senso, una costruzione del nostro cervello dedotta da quanto appare nella visione (vedi Zeki, Kandel). In questo la Fotografia può essere più aderente a quella che è la immagine che arriva sulla nostra retina, che è bidimensionale.
Questo è il campo di ricerca visiva in cui mi sto applicando, partendo dalla mia personale esperienza di visione.
Le mie serie Evolutio e Metaphysica, infatti, presentano immagini di tipo astratto, non riconducibili a forme “oggettivamente” significanti, oppure presentano un livello elevato di semplificazione dei dettagli tale da diventare nei casi estremi immagini astratte, presentando l’estrazione di una “essenza” del soggetto di partenza.
Questo implica (almeno nelle mie intenzioni) la perdita delle dimensioni fisiche di Spazio e Tempo nel mio stato personale, nell’immagine proposta e, mi auguro, nello stato dello spettatore.

Mi sono reso conto di quanto possa essere diretto e forte un messaggio artistico quando non entra nel riconoscimento intellettuale di una figura, ma rimane nel campo delle percezioni inconsce dell’artista e dello spettatore. C’è una somiglianza con il guardare le fiamme di un fuoco o l’eruzione di un vulcano o le onde del mare: si rimane in uno stato interiore oltre il riconoscimento esteriore.
Per evitare il riconoscimento intellettuale nella serie Nature Evolution ho selezionato particolari di rocce che mi ispiravano, decontestualizzandoli e ho anche elaborato un po’ l’immagine per evidenziare i motivi e i colori, cercando di estrarre l’essenza di quel disegno.
 
La Metafisica (ciò che è dopo o oltre la fisica) è uno degli approcci filosofici dai tempi di Aristotele. Giorgio De Chirico (pittore moderno italiano) ha usato questo concetto per i suoi quadri ambientati in ambienti essenziali.
Il buddismo suggerisce la vacuità (assenza di sé) come essenza di tutti i fenomeni, così come una caratteristica unificante.
Negli ultimi tempi, nella mia attività artistica (fotografica) sono passato da una visione precedente il più chiara e nitida possibile, onnicomprensiva, sostanzialmente infinita (grandangolo, iperfocale) verso una visione contemplativa, cercando campi omogenei come in una visione puramente bidimensionale, complessivamente sfumata, ma sempre con attenzione alla luminosità, all’essenza della luce, che generalmente pervade l’intera immagine.
Ho cercato di approssimare il modo di visione che a volte ho in condizioni particolari, come quando resto con la mente e gli occhi molto rilassati.
Ed ho riscontrato che ne escono immagini in cui si manifesta la “vacuità” anche quando il punto di partenza è così materiale come sono le rocce e la terra. A questo punto le due serie tendono a confluire in immagini leggere (vacue) e tendenzialmente “astratte” (nel senso artistico). La Vacuità è Forma e la Forma è Vacuità.

THE MIND’S GAME WITH TIME

According to various teachings in the East, time is a dimension created by our minds. Neuroscientists like Semir Zeki and Erik Kandel explain that our brain is structured for the necessities of survival, essentially to recognize the same things in different situations, and to distinguish and stabilize the characteristics of the shape, color, consistency, and location of phenomena that are examined by the senses. So it seems that the mind also needs to stop time. By assigning conventional words to objects and concepts, language itself shows a similar need to refer consistently to something under varying circumstances.
It is my hypothesis that the human need to conceptually define the Essence of things (understood as objects, phenomena, and thoughts), which gave rise to the creation of Philosophies and Religions, arose from this physiological tendency as well as, perhaps, the more complex psychological need to consider things to be everlasting, beyond the inevitable decomposition inherent in every object and material or natural phenomenon (impermanence). This can also be understood as overcoming the thought of one’s own death.
However, instead of stabilizing the Mind, following this predisposition loses us in the vortex of concepts and thoughts, which are not the origin or the true essence of things, but their own contrived abstraction.
To remain in the true Essence of our Sensations (i.e. that – and only that – which reaches our senses) it is useful to practice not going immediately and spontaneously to the subsequent phase, called Perception by E. Kandel, which automatically brings to mind the knowledge that we have already acquired and contextualizes Sensation with recognition, then classification, and judgment.
The Visual Arts can be helpful in providing images that have content or style that favors the phase of Sensation but not the more subjective phase of Perception. This can be achieved, for example, through abstract art (despite the term) in contrast to figurative art, or also through intermediate ways or styles in which the artist simplifies the sensory characteristics that influence the perception phase.
It is commonly believed that a single photograph (just like a painting) stops Time at the moment of the shot (a “snapshot”). The whole process, which includes conception, production, and fruition, is actually much more complex and Time can come back into play in many ways.
Another feature of those Visual Arts that have a two-dimensional plane as their output (Photography, Painting, Video) is the physical lack of three- dimensionality. Even three-dimensionality or representation in Space is, in a certain sense, a construction of our brain deduced from what appears in our vision (see Zeki, Kandel). In this regard, photography can be more relevant to the image that arrives on our retina, which is two-dimensional.
This is the field of visual research in which I am working, starting from my personal experience of vision.
My Evolutio and Metaphysica series present abstract images that are not linked to “objectively” meaningful forms, or that have a great simplification of detail so as to become abstract images in extreme cases, displaying the extraction of an “essence” of the subject.
This implies (at least in my intentions) the lack of the physical dimensions of Space and Time in my personal state, in the image and, I hope, in the state of the viewer.

I realize how direct and strong an artistic message can be when it does not involve intellectual recognition of a figure, but remains in the field of the unconscious perceptions of the artist and the viewer. It is a similar to looking at the flames of a fire, or the eruption of a volcano, or the waves of the sea: you remain in an inner state beyond external recognition.
To avoid intellectual recognition in the Evolutio series I have selected details of rocks that inspired me, taken them out of context, and also elaborated the images a little to highlight the patterns and colors, trying to extract the essence of the design.
Metaphysics (that which is after or beyond physics) has been a philosophical approach from the time of Aristotle. De Chirico (a modern Italian painter) used this concept for his paintings set in rarefied environments.
Buddhism suggests emptiness (selflessness) as the essence of all phenomena, as well as a unifying feature.
In recent times, my artistic (photographic) work has passed from a previous view that was as clear and crisp as possible, all-inclusive, substantially infinite
(wide angle, hyperfocal) to a contemplative one, looking for homogeneous fields as in a purely two-dimensional, overall nuanced vision, but always paying attention to the brightness and the essence of light, which generally pervades the whole image.
I have tried to get closer to the way of viewing that I sometimes have in particular conditions, such as when my mind and eyes are very relaxed.
And I have found that images emerge in which “emptiness” manifests even when the starting point is as material as rocks and earth. At this point the two series tend to flow into light (empty) and naturally “abstract” images (in the artistic sense).
Emptiness is Form and Form is Emptiness.

WINDOWS: la finestra come membrana osmotica visiva
di Roberto Zamparo
ITA

WINDOWS
La finestra come membrana osmotica visiva

Nel corso delle vacanze estive del 1995 mi sono accorto di una certa propensione a fare fotografie alle vetrine o ad alcune finestre. Un esame retroattivo del mio archivio evidenziava che questo interesse, sia pur in embrione, datava molto indietro, a metà degli anni ’70, quasi agli inizi della mia attività fotografica.
Da quel momento di presa di coscienza, ho guardato con più attenzione e consapevolezza vetrine e finestre, perché ho concepito l’idea organica di un lavoro sul tema. Non solo mi affascinava il gioco delle proiezioni e riflessioni sui vetri, ma percepivo il senso più ampio della finestra, che cercherò di esprimere nel seguito.
Le considerazioni seguenti sono il frutto di una meditazione sul ruolo ed il significato della finestra, sia essa collocata in ambienti “privati”, sia essa realizzata a scopo commerciale, anche se in tal caso in italiano (ma non in inglese) cambia nome e si chiama vetrina. E’ per unificare il concetto che ho chiamato questo lavoro “windows”, utilizzando il termine inglese, che rappresenta entrambe le tipologie.
Tutte queste considerazioni sono personali, nate spontaneamente, senza attingere a letteratura e senza voler fare letteratura, e non mi stupirebbe che chiunque abbia considerato l’argomento sia pervenuto a pensieri analoghi, se non anche più originali.

La finestra difende e ripara dagli agenti atmosferici esterni, freddo, caldo, pioggia, vento, nonché (sempre meno) dalle intrusioni di persone e animali.
Quando è munita di persiane, scuri, tapparelle, imposte, veneziane e altri generi di tende, ripara anche dalle intrusioni visive, anche se questi strumenti interrompono sia il flusso di informazioni dallo interno all’esterno che viceversa, per quanto l’isolamento sia più forte nella prima direzione, poiché per essere in grado di guardare fuori bastano piccole fessure.
Nel caso, invece, in cui non ci siano barriere protettive visive, la finestra – anche chiusa – permette il contatto visivo.
Questo contatto è (salvo nel caso di vetri a specchio) bidirezionale, cioè si può guardare fuori da dentro, e altri possono contemporaneamente guardare dentro da fuori.
Può così avvenire uno scambio di informazioni visive, anche senza contatti fisici, interrotti dai vetri, che mi ricorda lo scambio delle sostanze vitali nella cellula, che avviene attraverso le pareti della stessa senza che per questo essa perda la sua identità.
E mi viene da pensare alla analogia fra le finestre e gli occhi ed al rapporto che il nostro interno ha con l’esterno, che l’uso ed il funzionamento della finestra può ben rappresentare, almeno in parte.
L’ambiente in cui viviamo è un’estensione di noi stessi e quindi noi abbiamo probabilmente ideato le finestre in analogia agli occhi, solo che per un involucro più esterno (la casa).
Anche la sopra citata simmetrica bidirezionalità dello scambio di informazioni è in analogia al comportamento individuale. Normalmente la gente cerca di esporsi e di manifestarsi il meno possibile, almeno nei suoi aspetti più interiori e quindi delicati, mentre cerca invece di cogliere il maggior numero possibile di informazioni dall’esterno.

Per la tipicità della “membrana” vetro, però, il trasferimento, soprattutto delle immagini interne all’esterno, può essere parziale, mentre sulla finestra si riflette la situazione esterna in tutto o in parte, impedendo la visione di quello che è all’interno.
Mi affascinano spesso queste situazioni ibride, in cui sulla finestra si accumulano più realtà, che talvolta sembrano due mondi paralleli (e magari lo sono). O meglio, sembra anche che si compenetrino (sul piano della finestra questo avviene), ma sarà vero? Ci resta sempre il dubbio.

Da quanto detto fin ora sembrerebbe che le finestre siano concepite o utilizzate in maniera difensiva. Così è se diamo per scontata la loro esistenza. Ma nel fare questo nostro involucro ulteriore che è la casa, non è scontato che debba essere fatta con più di una apertura. Alcune dimore di stile primitivo infatti non hanno che l’entrata, altre anche un foro sul tetto per l’uscita del fumo.
Nella “invenzione” delle finestre ha giocato probabilmente il desiderio di contatto, anche se contradditorio a quello di difesa: le finestre sono fatte per aprire la casa, cioè il nostro involucro esterno. Qui il parallelo con la persona – ed i suoi occhi – vacilla, perché l’apertura delle finestre è stato un atto volontario, mentre l’apertura degli occhi, salvo casi patologici, è fisiologicamente “automatico”.

Questo desiderio di apertura (forse anche una necessità) è quello che ha portato all’esposizione tramite le vetrine.
La vetrina è fatta per mostrare, cioè per portare fuori informazioni su quello che c’è dentro, nel tentativo di attirare dentro chi è fuori, cioè di stimolare un’azione opposta a quella che compie la vetrina.
Per forzare leggermente il paragone con gli occhi associandolo a questa considerazione, ricordo che fra i “meccanismi” di seduzione (in senso lato), rilevati scientificamente, c’è la dilatazione della pupilla. Trascurando qui gli effetti psicologici indotti, è comunque una forma di apertura fisica maggiore del normale che dimostra una maggiore disponibilità interiore.
Anche nel caso della vetrina, al desiderio di apertura si sovrappone quello difensivo, altrimenti non ci sarebbe bisogno di vetri (magari blindati), che in molti mercati del terzo mondo infatti non esistono: la merce viene esposta direttamente al pubblico fin che l’esercizio è aperto.
Inoltre, anche per questo tema, come per altri, non esiste “solo bianco o solo nero”, ma sfumature intermedie, cioè commistioni fra la funzione di finestra e quella di vetrina, oltre che fra azione attiva e passiva.
Anche se in occidente siamo abituati a pensare alla vetrina come un elemento architettonico dedicato alla esposizione, talvolta si vedono soluzioni ibride, dove la normale finestra (quindi non fino a terra e non di dimensioni particolari), viene utilizzata come vetrina, esponendo la merce. In casi particolari, riportati fra le immagini presentate, la finestra svolge comunque anche il suo ruolo di punto di ingresso della luce.